Cerca

venerdì 24 aprile 2020

La città dei morti

Sul perché la città di Mir venga ancora detta “la Città dei morti” se ne sono dette molte. Tra tutte, la seguente versione ci è sembrata quella più attendibile, per quanto, ancora oggi, venga definita “leggenda” da un modesto numero di studiosi. All’epoca dei fatti, la città contava non più di seicentotredici persone. Segue la traduzione del testo originale rinvenuto nel nordest africano e scritto in Urdu.

A Mir vi fu un giorno in cui il giovane Glettermoon dimenticò il proprio nome. Era costui il giovane più amato della città. Tutti lo consideravano come un figlio. Molti, per giunta, vedevano in lui il nuovo Messìa.

Mir, città particolarissima, per ambienti e persone di esagerata sensibilità. Mir, per natura, luogo della memoria a fase alternata. Mir, paradossalmente, luogo in cui tutti temevano la paura più della morte.

 Di buon mattino, Glettermoon era solito recarsi alla Fonte, una sorgente speciale, per riempire le giare di uranio impoverito liquido e poi venderlo, totalmente ignaro dell’uso che se ne facesse, ad alcuni scienziati e ricercatori delle regioni vicine che lo richiedevano in grandi quantità. L’idea di un metallo “impoverito” gli procurava così tanta tristezza che, spesso, per la pena, sostava sulla strada e lo accarezzava piangendo. In inverno poi, lo avvolgeva nel proprio cappotto per proteggerlo dal gelo, l’impoverito. Quella mattina però, Glettermoon non si recò subito alla Fonte. Il giovanotto decise di andare prima dal falegname per acquistare delle tavole di ciliegio. Improvvisamente, provò un’irresistibile adorazione per le tavole di ciliegio.

Entrando nella bottega, incrociò il cane da caccia del sindaco che gli ringhiò. Così, mentre Glettermoon incorreva nei primi effetti devastanti della paura, tempestivamente intervenne Santegiuseppe Masi che scacciò la bestia urlando con forza. Appena in tempo! Santegiuseppe Masi, falegname, primogenito di Agenore Masi, devoto diacono di Mir, dovette intraprendere quella carriera per dare un senso alla propria vita, almeno così affermava ogni volta.

- Ehi, buongiorno Glettermoon! Sai, ho dovuto intraprendere questa carriera per dare un senso alla mia vita.

- Sì. Questo è noto. Comunque grazie, signor Santegiuseppe, per avermi salvato dalla paura e, soprattutto, per avermi ricordato il mio nome.

- Ma cosa vuoi che sia!

- Invece no. A volte è fondamentale ricordare. Pensi che mi ero appena convinto di non essere me stesso.

- Ma cosa vai dicendo Glettermoon?

- Davvero! Ho creduto di essere un tale che doveva comprare delle tavole di ciliegio.

- E per farci cosa?

- Mobili, credo.

- Ah, mobili? Allora saresti stato un mio concorrente!

- Forse sì. E’ molto grave?

- Beh, se non fosse per il nome che porto…

- Cosa?

- Due possibilità. Uno: non avrei potuto intraprendere questa carriera e dare il senso che ho dato alla mia vita.

- E in tal caso però non sarei stato suo concorrente.

- Esatto. E nemmeno saresti qui a chiedere tavole di ciliegio. Due: mi sentirei autorizzato a darti una bella lezione!

- Senta signore, nessun problema. Mi dia pure questa lezione!

- Bene.

In tal modo, Santegiuseppe gli insegnò le basi del bravo falegname in un’oretta e mezza di teoria e pratica.

Dopo la lezione, Glettermoon tornò a casa. Aveva comunque comprato otto tavole di ciliegio, gli sembrò giusto così. Le lasciò sull’ingresso. Prese quindi le giare e andò a riempirle di uranio impoverito, come d’uso. Dopo circa due ore, tornò di nuovo a casa con gli occhi bagnati per la pena. Suo padre, un uomo paffuto, giocherellone e di dubbia stabilità, proprio mentre si stava chiedendo perchè quelle tavole di ciliegio si trovassero lì, accorgendosi del rientro di Glettermoon e della sua commozione, si avvicinò di soppiatto, come purtroppo era solito fare, nascondendosi qua e là tra l’umile mobilia. Quando si decise ad abbracciare il giovane figliolo per rincuorarlo, lo fece balzandogli vicino e sorprendendolo alle spalle. Glettermoon perse i sensi per il terribile spavento e fu subito ricoverato nell’ospedale della città in stato di coma profondo. La brutta notizia fece immediatamente il giro del paese generando sconforto e apprensione per il ragazzo più amato di sempre. In pochi minuti, tutti i cittadini erano in ginocchio sul piazzale di fronte all’ospedale a vegliare e pregare per Glettermoon. Il buon papà, intanto, affranto per l’accaduto, tentava faticosamente di spiegare i fatti al dottor Iorchinter, primario del reparto e bizzarro scienziato.

- Ma che bisogno c’era di avvicinarsi a suo figlio di soppiatto? Non sa che la paura è un serio problema in questo posto?

Così esordì Iorchinter.

- Oh mio Dio, perdonami!... Dottore, lasci che le spieghi. Io mi sto adoperando affinchè mio figlio riesca a resistere almeno un pochino di più... Lui è troppo sensibile, questo è noto a tutti in paese e quindi io... io cerco di far diminuire la sua intolleranza alla paura. Insomma, glielo faccio tutti i giorni quello scherzetto. E’ sempre rinvenuto entro il minuto e diciotto senza problemi.

- Quello è il record?

- No, una volta rinvenne in cinquantotto secondi e diciannove centesimi. Indimenticabile!

- Non ci posso credere! Non è umano! Oh! Per uno scienziato, ammettere questa cosa procura un forte disagio.

- Comprendo quello che prova dottore, come la capisco.

- Eh, già. Certe cose mi rendono fragile e mi indeboliscono... Ecco! Adesso ho bisogno di sdraiarmi un momento. Posso sdraiarmi signor… Scusi, ho dimenticato ...

- Sean, dottore... mi chiamo Sean Tonnery!

- Caspita!  Davvero? Quasi come l’attore!

- Eh, sì… Quasi! Ci sono andato davvero vicino. Per un pelo, solo per un pelo, dottor Iorchinter.

- Che sfortuna però! Mi dispiace tanto. Allora? Posso…

E indicò un lettino.

- Oh, che sbadato! Certo! Prego dottore, si sdrai pure.

Iorchinter si allungò sul lettino e, come una serpe, si stirò ruotando sui fianchi a destra e manca.

- Aaaah ... Che delizia! Lei lo sa?...

- Cosa?

- Quando mi stiro, io divento un altro.

- Davvero? E chi?

- Robert Tedford!

- Non ci credo! Quasi come...

- Proprio così! L’attore, quasi come lui.

- Caspita però, anche lei ci è arrivato a tanto così!

- Vero. Non ci riesco mai! Tutte le volte che mi sono stirato ho sempre ottenuto lo stesso risultato. Una condanna. Niente di più. Mi avvicino ma non realizzo! Come vede, noi abbiamo qualcosa in comune, caro Sean.

-  Bene signor… Tedford, mi dispiace tantissimo ma io vorrei dirle che...

-  Sì, mi dica! Tuttavia non riveli a nessuno questa mia nuova identità, la prego.

-  Ma si figuri! Pensi signor Tedford…

- Mi chiami pure Robert.

- Grazie! Pensi Robert, mio figlio, ogni tanto, dimentica il suo stesso nome.

- Dovrebbe parlarne subito con il dottor Iorchinter.

- Certo, vorrei tanto, ma ora non posso.

- E perché?

- Perché ormai si è stirato e si sente un altro.

- Porco mondo! Lei è proprio sfortunato Sean!

- Si figuri che è in coma.

- Chi? Il dottore?

- No, mio figlio!

- Caspita! Coma coma?

- Sì, coma coma! Ha preso una gran paura! Povero figliolo!

- In questo luogo si può morire di paura, molto facilmente! Suo figlio è in pericolo!

- Chi glielo ha detto, il dottor Iorchinter?

- No! Lo dico io!

- Ma Robert, lei adesso non è un dottore! Questo non dovrebbe dirlo. Così fa paura anche a me.

- Tranquillo! Non tema! Piuttosto, come ha detto che si chiama suo figlio?

- Veramente non l’ho detto, comunque si chiama Glettermoon.

- Che nome di classe però!

- Vero. Noi, in famiglia, siamo molto attenti a queste cose.

- Noi no invece!

- Oh, no! Non ci voleva una cosa così nella sua famiglia.

- Pazienza! Tuttavia, come può immaginare e senza offesa, noi, in famiglia, abbiamo ben altro a cui pensare, caro Sean.

- Certo che lo immagino Robert. Sì sa. Famiglia davvero invidiabile la sua! Come anche quella del dottor Iorchinter, beninteso...

- Eh già. Pensi che ci invidiano tutti. Pure quella che toglie il malocchio.

- Oh che disgrazia! Proprio una dopo l’altra, eh?

- Ascolti, lei saprebbe togliere il malocchio?

- Sì ma…

- Ma?

- Ma…

- È un  fatto di soldi?

- No, ma quali soldi! È che non mi ricordo... Ho paura di confondermi col rito Babilonia.

- E che cos’è?

- Il rito Babilonia è l’unico rito al mondo che favorisce la caduta dei capelli.

- E chi se ne frega! Io non ho più molti capelli ormai.

- Ma no Robert! Quelli, i capelli, cadono dal cielo, per sette giorni e sette notti, come recita il versetto mille e trentuno, se non ricordo male.

- Oibò! Questa è nuova!

- Beh, mica tanto. Risale ai tempi di Nabuccodonosor.

- Addirittura!

- La formula che io conosco contro il malocchio è molto simile al testo del rito Babilonia. Essa differisce in due sole parti. Sono davvero pochissimi quelli che riescono a pronunciare bene verbi come “Demuniel demujel…”. Ora ascolti bene Robert! Questa è la formula contro il malocchio: “Socroik demuniel demujel nun tossik trenk crinalis multiplex eccetera eccetera…”… Questo invece è il rito Babilonia: “Socroik demuniel demujel nun tossik trenk crinalis multiplex eccetera eccetera…”

Capito? E’ tutta una questione di pronuncia e di accenti. Apparentemente, i due testi sono identici… Eh, non si scherza con la magia signore!

- Insomma, io cosa faccio? Mi tengo il malocchio?

In quel preciso istante un infermiere senegalese urlò da lontano.

- Papè papè sabè salammanè!

E tutta la gente del piazzale accorse per salutare il giovane Glettermoon che aveva miracolosamente riaperto gli occhi.

- Ma che avete da guardare?

Sussurrò il giovane sottovoce mentre tutti lo guardavano intensamente, in silenzio, ma ognuno con gli occhi pieni di gioia.

Il babbo Sean, intanto, si fece avanti di soppiatto per riabbracciare il figliolo appena uscito dal coma. Si fece largo tra la folla e, improvvisamente, raggiunta la prima linea, balzò in avanti verso il letto del figlio esclamando: “Cucù!”. Glettermoon ebbe un ulteriore, violento sussulto e per la paura morì. Il padre, questa volta, non resistette al dolore e morì anche lui qualche minuto dopo insieme a sua moglie, la madre di Glettermoon. Morirono in moltissimi quel giorno. Il dolore per la scomparsa del ragazzo fu devastante. In pochissimi minuti persero la vita trecentottantanove persone e il cane del sindaco. Robert Tedford, intanto, convinto che quella disgrazia scaturisse della potenza del malocchio, tentò di esorcizzare affidandosi al rito che aveva pocanzi appreso dal povero defunto Sean e che aveva frettolosamente trascritto su una paginetta di appunti.Tuttavia, senza alcun risultato. Fu la fine. Al grande funerale c’erano più morti che vivi e quel grandissimo dolore si diffuse come la peste. Uno dopo l’altro, durante il funerale, morirono tutti… a Mir, la città dei morti...

Segue, appena leggibile, la scrittura di seguito riportata:

 … Dopo tre giorni, secondo le profezie, Glettermoon resuscitò ma, purtroppo, non trovò nessuno a cantarne la gloria. Tutt’intorno si era generato un consistente, sgradevole tappeto di capelli. Solo capelli, dappertutto, che continuarono a cadere dal cielo per altri quattro giorni e quattro notti.

2 commenti:

Lasciate il vostro commento