Premessa: per milioni di persone il 15 di Agosto è il giorno di Ferragosto e a
Ferragosto milioni di persone sono in vacanza, per lo più in mare o in quota.
Solo un modesto esercito di queste sceglie di recarsi in luoghi d’arte o di
culto. Una buona ragione per decidere di appartenervi, al modesto esercito
ferragostano. Per la verità, e dato che la premessa non convince neppure il
sottoscritto, il vero motivo è un altro. Per due mesi ho letto i trattati del professor John Evan Mark Ctoin Ptil
Kù, il più grande positivista che la storia ricordi. Grazie a lui, tutti, dico
tutti, i fenomeni paranormali hanno avuto una risposta scientifica. Non c’è
uomo che, convinto di aver assistito a un miracolo, non sia stato poi smentito
dalle risposte analitiche dell’insigne scienziato. Darei non so cosa per
poterlo incontrare, o meglio, per avere argomenti validi in tal senso. Incontrarlo, il professore, è come totalizzare una cinquina al lotto per
tre volte consecutive utilizzando gli stessi numeri sulla stessa ruota.
Tuttavia per questo spero di avvalermi dell’aiuto di Gionni (scritto così), un
mio caro amico italo-canadese, già suo allievo in passato. In cuor mio conto d’incontrare il mostro sacro dopo aver assistito a
qualcosa di misterioso. Spero d’imbattermi insomma in una di quelle magiche
avventure che, scevre d’ogni fondamento, ti lasciano con la sensazione netta
d’aver assistito al miracolo. Qualche giorno fa alcuni cari amici mi hanno proposto di recarmi a San
Giovanni Rotondo, luogo di sicura santità, “ lì – asserivano convinti- troverai
un segno, di sicuro, purché tu vada convinto”.
Mosso da un mio
personalissimo credo, alle cinque del mattino del giorno di ferragosto sto già
sbattendo due uova in cucina. Immagino di gustarle più tardi nel pane, in quel
luogo santo dell’arido entroterra pugliese. Un pranzetto al sacco per cui non
godo più dai tempi del liceo. Sto affettando del salame casereccio per
arricchire la mia frittata che…guardo bene nel piatto: tra le uova sbattute
intercetto un pezzettino di guscio. Guscio d’uovo cadutovi mentre le rompevo.
In altre circostanze un pezzetto di guscio mi ha fatto gettar via tutto il preparato.
Mi fa schifo. E’ sempre stato più forte di me. Non questa volta però. Contro le
mie stesse abitudini lo catturo tra pollice ed indice e lo sollevo, lo maledico
e… giù nei rifiuti. Guardo il piatto col
preparato di uovo sbattuto e altro: “tanto deve cuocere” realizzo per la prima
volta da che sbatto le uova per la frittata.
… Il viaggio è agevole. Pochissimo traffico e un caldo infernale domato dal
climatizzatore. Dopo tre ore circa giungo al paese che, attraverso trenta
chilometri di campagna bruciata, si offre,come fiero di sé, sulla punta di una
collina. La buona stella mi regala subito un parcheggio vicino al santuario. Ho
già la sensazione del piccolo miracolo, tanto più se considero la massiccia
affluenza di persone e di mezzi in quel luogo. Sorrido divertito: è tuttavia
troppo poco per concedermi il lusso di scomodare il professore.
Risalita una scalinata, accedo alla piazza. Tiro un po’ il fiato tra la
gente che sembra tutta intenta a cercare qualcosa, che ti guarda e non ti vede.
C’è tanto sole. Ecco, questo mi colpisce. Mi metto in coda per accedere al santuario in cui giacciono le spoglie del
Beato del secolo. Procedo lentamente lasciandomi un po’ andare e cercando così
anch’io un degno segnale per i sensi o per lo spirito. Concludo il giro in
un’ora esatta. Davvero coinvolgente, emozionante. Tuttavia nessun segno.Lo cerco di nuovo tra la folla della piazza, mentre mi asciugo il sudore e
subisco le prime tentazioni carnali dovute a quel certo languorino tipico del
mezzodì. Mi ritorna un pensiero del mio passato prossimo. C’è tanto sole in
questo posto. E di rimando: non c’è ombra nelle vicinanze in cui poter sostare
ed addentare il primo dei due panini con la frittata che tengo nello zaino. Per
il segno rimando a poi. Decido di mangiare e di rifare il giro del santuario di
nuovo nel pomeriggio. Vinto dalla fame addento il panino mentre ancora cammino,
alla ricerca di un posticino fresco. Desisto quando mi rendo conto che tra le
dita rimane solo il tovagliolino di carta impregnato d’olio. Così mi avvicino
al cestino per gettarlo e...noto qualcosa… Miseria ladra! Non c’è ombra
davvero! Non c’è. Neppure la mia ombra. Quella che chiunque esposto al sole
genera, riproponendo se stesso per terra. No! Non è possibile! C’è il sole a picco che arde tutt’intorno ed io non ho
più la mia ombra tra i piedi. Socchiudo gli occhi e poi li riapro. Niente!
Provo a distrarmi e cerco di nuovo risposte
tra la gente. Ecco qua che il sole mi ha cotto la materia grigia!
Nessuno ha più la propria ombra. Tutti a vagare qua e là sotto il sole senza la
propria ombra. Ma che sarà mai? Ma se ne saranno accorti? Sono tentato di domandare a qualcuno, ma non oso. Ho paura che si tratti di
una mia personale allucinazione e di venire impietosamente deriso. Poi si
affaccia la speranza che si tratti del segno che ero venuto a cercare. Rifaccio
una rapida panoramica tutt’intorno a conferma del bizzarro fenomeno. Mi
convinco: questo è il segno che porterò nello studio del professor John Evan
Mark Ctoin Ptil Kù. Telefono a Gionni e gli chiedo di avere un urgentissimo appuntamento, che
mi viene concesso per il giorno seguente subito dopo pranzo. Miracoloso anche
questo. Faccio mente locale. Mi viene spontaneo ringraziare il Beato Padre per
avermi concesso tanta testimonianza e decido di partire convinto del fatto mio.
Questa è grossa davvero!… Rifletto soddisfatto. Tuttavia mi sembra poco cristiano andare senza aver almeno recuperato la
mia ombra. Così mi convinco a cercarla. La consapevolezza di dover prolungare
la sfida con quel caldo torrido per quello scopo mi solletica come un atto di
misericordia, sicuramente poco ortodosso, però è così. Giro a zonzo per alcuni minuti, tra la gente ignara del prodigio che si
rivelava ai miei occhi. Nemmeno gli alberi producono ombra. Annoto tutto sul
taccuino e giro di luogo in luogo fino a che, rivolto di fronte al santuario,
noto finalmente che questo produce la propria ombra perfino nei dettagli. Rivolgo
di nuovo uno sguardo panoramico sui dintorni, convinto che l’incantesimo sia
terminato. Macchè!… Tutt’intorno quella del santuario è l’unica ombra
percettibile. “Ma come ho fatto a non vederla prima?”. Mi avvicino quasi in punta di piedi e vi entro, in quell’ombra. Prima col
destro... Non faccio in tempo a poggiare a terra il piede sinistro che qualcosa
mi fa saltare fuori da quel perimetro più scuro del resto, di nuovo al sole per
assistere allo spettacolo di una decina di ombre, chiaramente umane, che escono
per un istante dalla grande ombra e vi rientrano velocissimamente, in un
frullar danzante di raro fascino coreografico. “No, questo sarebbe troppo!…”
rifletto, timoroso di quanto stavolta la mia mente vada realizzando e, inoltre,
rammaricato per averle disturbate calpestandole, mentre anch’io entravo
nell’ombra del santuario. “Stai a vedere che…” Non riesco a concludere il
pensiero. Mi sembra davvero troppo credere di aver scoperto una specie di ritrovo spirituale di tutte le ombre. Mi guardo intorno per accertarmi che qualcuno non assista a quello che sto
per fare. Lo faccio. Mi piego sulle ginocchia e inizio a produrmi in buffi
richiami, simili a quelli che si emettono per indurre, per esempio, un cucciolo
a seguirti. Sento che tutto ciò sia ridicolo ma anche che è così che si
richiama un’ombra a sé, ma soprattutto perchè non mi viene un’idea migliore. Improvvisamente un nuovo frullar d’ombre si produce oltre i confini di quel
sacro edificio proiettato per terra. Il balletto dura pochi attimi e le
simpatiche creature si ritirano ancora al di là di quelle mura virtuali. Tutte
tranne una… Eh, la riconosco, è la mia ombra. La vedo e sorrido di dolcezza
mentre quella è ancora rivolta verso il luogo che ospita le sue compagne. Sento
qualcosa come la commozione. Mah!… Ora si avvicina a me, lentamente, come chi teme un sonoro rimprovero.
Sorrido di nuovo, per rassicurarla, e quella accelera, fiera del mio perdono.
Così riconquista il suo posto naturale, di nuovo incollata saldamente alle mie
suole e mi segue fino alla macchina.
Il giorno dopo…
Approfitto del giorno di ferie preventivamente richiesto per ritardare
l’alzata il più possibile. Ho pensato di recarmi dal professore senza aver
fatto null’altro di consistente prima, per tentare di conservare inviolata
tutta quella sublime memoria.
Con una punta di pudore e una di orgoglio immagino un titolo di giornale
col mio nome. Immagino di inchiodare il professore agli occhi del mondo. Mi
riaddormento. A mezzogiorno e mezzo vago sonnecchiante per la casa in cerca di
concentrazione. All’una sono sotto la doccia. Alle due precise busso emozionato alla porta del luminare.
- La prego si accomodi.
Mi dice indicando una poltroncina di fronte a sé.
- Grazie professore. Io devo dirle che sono onorato di conoscerla, davvero.
- Anch’io ma… cortesemente, mi esponga questo urgentissimo caso. Il nostro
amico le avrà sicuramente riferito del mio urgentissimo impegno tra mezz’ora.
- Beh, veramente no. Che peccato!
- Perché?
- E’ un peccato che per un caso come quello che sto per rivelare si abbiano
a disposizione solo una trentina di minuti.
- Oh… Lei è davvero convinto di quello che dice signore?
- Beh, sì, senza offesa per carità, credo proprio di sì.
- Avanti allora, dica pure ...
Racconto tutto con calma e chiaramente. In poco più di dieci minuti, senza
interruzione alcuna e con la convinzione di vincere la battaglia. Sorrido
appena, dopo l’ultima sillaba del mio racconto, che quello si leva e tira fuori
dalla libreria un grosso volume, tra migliaia di altri, con una sicurezza
inaudita. Lo apre sull’ultima pagina e me lo mostra. C’è la foto di una gallina
e, a mezza pagina, una didascalia nemmeno tanto lunga.
- E’ una delle scoperte più recenti! Pensi che lei è il primo caso . E poi
guardi un po’! Cade proprio sull’ultima pagina. Oltre non si va…
Così dice avvicinando il librone per agevolarmi nella lettura.
- … Glielo lascio, legga pure con calma, meglio se fa da sé …
Aggiunge passandomi le scritture e, ahimé, anche l’umiliazione del
solitario ravvedimento. Lo vedo infatti allontanarsi ed uscire dallo studio
senza degnarmi neppure di un saluto. Ci resto male ma poi dimentico la
scortesia per immergermi in quella misteriosa didascalia. Leggo e man mano
avverto d’ impallidire.
C’è scritto, con tanto di riferimenti bibliografici, che lo shoctilococco,
un batterio che si annida sui gusci delle uova, può determinare una particolarissima
allucinazione denominata sindrome di Peter Pan, specialmente se in combinazione
con le endorfine che spesso produciamo quando superiamo una certa soglia di
concentrazione mentale. Detta sindrome si manifesta per una decina d’ore
consecutive con la totale perdita di cognizione della propria ombra e, nei casi
più gravi, anche delle altre ombre. Di tutte le ombre. Il sudore freddo mi richiama la mano sulla fronte. Rileggo tutto. Si
riproduce lo sgomento. A seguire, i miei occhi incrociano formule chimiche e
calcoli numerici. Troppo per addentrarmi oltre nei meandri oscuri di quel
concetto che mi ha già sopraffatto e avvilito abbastanza. Dio mio che
delusione! … Dopo un paio di minuti sto attraversando il grande parcheggio. Cerco la
mia macchina con gli occhi semichiusi per il sole. C’è una grande afa anche
oggi. Mi fermo e mando giù una lunga boccata d’aria che, per quanto bollente,
sollecita i polmoni ad aprirsi. Guardo le altre persone che cercano l’auto con gli occhi seguite dalle
ombre stanche. Ripenso a ieri. Sorrido alla mia sconfitta e saluto così la mia
rassegnazione. Giungo alla macchina e prendo le chiavi dalla tasca. Queste mi
scivolano a terra. Mi chino per raccoglierle quando la vista rivela al mio
istinto una qualche anomalia che non colgo subito ma che tuttavia mi induce ad
approfondire… No! Di nuovo! Non è possibile!Cerco immediatamente altre persone con lo sguardo. Le trovo. Tutto
regolare. Anche tra gli alberi, le stesse macchine parcheggiate e tutto il
resto. Manca solo lei. Questa volta manca solo la mia ombra! Richiamo a me tutta la forza del pensiero. Pochi attimi. Aggiungo poi che
sono rimasto digiuno da ieri, da quel panino con la frittata. Neppure un caffè
al mattino. Sorrido e poi… scoppio a ridere come un pazzo. Richiamo perfino l’incredula
attenzione di qualcuno che passa. Ma chi se ne frega delle prove e dello scienziato. Il piacere è un fatto
personale e di difficilissima condivisione. Continuo a ridere anche in macchina, mentre lascio il parcheggio e mi
dirigo verso il self per fare il pieno. Mi aspetta ancora un lungo viaggio. So
dove trovarla.
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