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sabato 13 giugno 2020

Il dottor Belindo Wear

Era una notte veramente fredda.
Il dottor Belindo Wear stentava a prender sonno.
Ad un tratto udì qualcuno bussare alla porta.

-        A quest’ora? - Pensò.
Andò ad aprire e sulla soglia incontrò una vecchia signora tutta infreddolita che stringeva intorno a sé gli abiti sudici.

-      Mi aiuti, la prego...
-      Presto, entri... si accomodi...
La donna esitò e sostò per un attimo ancora.

-      La prego, signore, non posso separarmi dal mio bagaglio.
-     Non si preoccupi, glielo porto in casa subito. Ora però, pensiamo un po’a lei, eh? Si avvicini al fuoco. Vado a prenderle degli abiti asciutti. Mi aspetti qui... Oh, mi scusi, io sono Belindo Wear e lei, signora, come si chiama?
-    Mmmmm.... - esitò ancora la vecchia donna- ... Simposia, mi chiamo Simposia e faccio la... cameriera... ecco... mi occupo delle cose domestiche io.
E non riuscì più a trattenersi dal piangere.
Belindo si avvicinò e l’abbracciò.

-      Non faccia così, signora. Non c’è niente di cui si debba preoccupare.
-      Mi scusi ma...  lei è così gentile che io... Io non sono più abituata a queste             attenzioni.
-    Non tema. Ora vado a prenderle degli abiti asciutti, se no le verrà un malanno. Poi mi racconterà tutto, va bene?
La vecchina sorrise.

-   Va bene... 
E tirò su col naso.

Più tardi, la donna raccontò la sua incredibile storia al dottor Belindo.

-   Incredibile! Davvero incredibile ma io le credo e... comprendo anche il suo umoree la sua crisi, mi dispiace molto signora. Prenda pure una pausa... Spero di poterle dare una mano, prima o poi.
Furono le ultime parole per quella sera.

                        ... due anni dopo ...

Studiava giorno e notte il dottor Belindo Wear, giorno e notte.
Crollò a seguito di ciò, dopo due giorni e due notti di veglia, battendo forte la testa sullo scrittoio.
Restò immobile per una ventina di minuti riverso in avanti. La vecchia cameriera, che Belindo tenne generosamente con sè, entrò nello studio con il caffè e poggiò la tazzina sul piano, vicino all’esausto dottore.
L’odore lo svegliò. Aprì gli occhi a metà, mise a fuoco le cose che gli si presentavano davanti, man mano che procedeva nella panoramica circolare, da sinistra a destra e senza sollevare il capo dal tavolo. Incrociò la tazzina fumante, concentrò lo sguardo. Deglutì, immaginando di mandar giù una sorsata di quel siero magico. Ebbe la sensazione chiara di averne bevuto per davvero. Eppure la tazzina era ancora lì, a circa venti centimetri dal suo naso, dove la cameriera l’aveva poggiata. Improvvisamente balzò in piedi e levò le braccia al cielo:

-        Eureka! - Urlò con quanto fiato avesse in gola -
La cameriera ripiombò nello studio preoccupata.
-        Mi ha chiamato signore ?
Belindo addolcì lo sguardo.

-        No Simposia, mi scusi ... È che... Credo di aver trovato... Finalmente...
La donna notò che il caffè era ancora sulla scrivania e che non era stato bevuto.

-   Se si riferisce al caffè signore, mi scuso. Se l’odore è troppo forte... Beh, credo anch’io che la soluzione sia quella di cambiare...
-   Ma nooo!...
Quasi si tuffò sullo scrittoio, aggredì la tazzina e bevve il caffè in un solo sorso.

-   Il suo caffè è eccezionale Simposia, eccezionale, tanto che mi ha ispirato la soluzione, capisce?
Simposia non aveva capito ma non osò dire di no.
-    Certamente signore... - e uscì dalla stanza- ... Certamente...
Belindo ne seguì l’uscita, poi si precipitò alla cassettiera. Da uno dei cassetti tirò fuori una grossa matita, prese un foglio da disegno e, senza esitare, tracciò delle linee e delle curve. Inoltre, in basso, annotò delle cose.

-    Ecco fatto !
 E corse via dallo studio, diretto in cantina.
Restò in cantina per un’ora e mezza circa. Ne uscì che aveva realizzato uno stranissimo aggeggio, parte in legno e parte in metallo. Era semplice e rozzo. Ma il professore lo teneva tra le mani come se fosse un neonato, il suo neonato.
L’oggetto era composto da una specie di manico di legno liscio ricavato da un bastone che era stato collegato ad un vecchio barattolo di vernice vuoto e ben lavato. Per congiungere i due componenti, Belindo aveva usato del filo di ferro; vari fili, in realtà, intrecciati a spirale l’uno con l’altro, in un unico corpo semirigido. Questo partiva dal centro del bastone di legno e si ramificava sull’altra estremità fino a sparire attraverso le due basi del barattolo, sulle quali aveva praticato due forellini. In questi, aveva fatto passare il filo di ferro, da parte a parte, come l’asse di una ruota. Per finire, sulla superficie rotante del barattolo, aveva praticato alcuni ulteriori fori a casaccio.
Uscì con quella cosa e con una busta che conteneva altro. Attraversò il cortile e, di corsa, puntò verso il parco giochi.

Il parco giochi della città di Shrumosh brulicava di decine di bambini che si muovevano lentamente da una parte all’altra.
Sul perimetro del parco, invece, sostavano i genitori. Tutti con lo sguardo perso nel vuoto, seppure apparentemente rivolto ai bambini. Ai loro piedi giacevano chili di carta regalo strappata e innumerevoli scatole vuote. La dimora di ogni  giocattolo: c’era la scatola di Sporcus il Terribile, Kriminal il Delinquente, Spactioman lo Squartatore D’amianto, La Spada Luminosa, Laser Pistol, Priscilla la bambola che strilla, Vanessa la bambola depressa. I giocattoli del momento, insomma. Tutti rumorosi e stracarichi di luci e riflessi colorati.
E i bambini li animavano, ingaggiavano combattimenti e duelli col giocattolo di altri, davano loro una voce (per lo più roca)... Poi, annoiati, li cedevano al primo che era disposto a scambiarlo con il proprio Robot o spada o altra arma spaziale. Alla ricerca di un’emozione più fresca. 
Il professor Belindo raggiunse il parco e si fermò a guardare quel mare calmo di bambini che però produceva suoni di fondo tutt’altro che gradevoli; spasmodici, assolutamente innaturale. Scosse il capo, come se disapprovasse quella vista e poggiò a terra il suo nuovo prodotto. Dalla busta tirò fuori della paglia e alcune stecchette di legno. Le bagnò con un po’ di alcool, aprì il barattolo rotante e le infilò dentro. Appiccò fuoco con un cerino e richiuse. Attese per qualche secondo, fino a quando non vide che dai fori che aveva praticato non cominciò ad uscire del fumo. Diversi pennacchi di fumo intenso che si levavano verso il cielo.Passò una gamba sull’asse di filo metallico intrecciato e afferrò fiero il manico di quello strano attrezzo che, in tal modo, si presentava come un lontano parente rudimentale della motocicletta o altro del genere su cui il professore, ora, si ergeva “cavalcioni”. Fece un gesto repentino col polso destro: in avanti e indietro, come quando si accelera sulla moto. Partì in picchiata verso il centro del parco giochi.In men che non si dica si era spinto nel mezzo del mucchio di bambini. I genitori non si accorsero di niente, presi com’erano da altri pensieri e da qualche sgraziato sbadiglio.Dal canto suo, Belindo girava qua e là “sul” proprio mezzo fumante.
La scia di fumo richiamò l’attenzione di un bambino che subito gli corse dietro, lo raggiunse e lo tirò per il cappotto.

-        Ehi, signore, ma tu sei un pazzo?
-        No, perché?
-        E che fai con quella cosa?
-      Ma come che faccio, non vedi? Faccio un giro in moto. E’ una Suzuki nuova nuova.
Il bambino restò a guardare perplesso, ma solo per un attimo. Raggiunse di nuovo il motociclista e lo stoppò ancora. Questi in tutta risposta simulò una pericolosa frenata.

-      Ehii, che fai? Vuoi farmi cadere?
-      Ma tu devi essere un pazzo.
-      Questo lo dici tu .
E si allontanò lasciandosi dietro il bambino e il pennacchio di fumo.
Intanto, un secondo bambino si avvicinò; era un po’ più piccolo dell’altro.

-        È una Space Caravel?
-        Sì, come hai fatto?
-        Dal fumo, l’ho riconosciuta dal fumo.
-        E ti piace il colore?
Il bambino diede un’occhiata al mezzo e quindi al pilota, fissandolo con una faccetta complice ma tuttavia interrogativa.

-        È gialla, non vedi?
Riprese il dottore.

-        Sì... È bella... Possiamo venire con te per un po’?
-        Possiamo?
-        Sì, io e lui. 
E gli mostrò il suo gigantesco robot di color acciaio.
-        Mmmm, mi dispiace ma c’è solo un altro posto. Per uno solo di voi.
Il bambino, senza esitare, gettò a terra il suo giocattolo e salì a bordo.

-        Dove andiamo?
-        Su Xar, il pianeta rosa.
-        Perché rosa?
-        Non è forse un bel colore?
-        Sì. Andiamo.
E mentre procedevano, altri bambini si avvicinarono curiosi.
-        Dove andate?
-        Su Xar!... - rispondeva il giovane passeggero -... sul pianeta rosa.
-        Possiamo venire con voi?
Belindo intervenne e rispose.

-     Aspettatemi qui! Posso portarvi con me, ma solo uno per volta. Tra poco tornerò a prendervi.
E tutti obbedirono, diligentemente.

Trascorsero due ore e tutti i bambini furono richiamati dai genitori per il pranzo. Non fu facile portarli via dal parco. E poi, tutti volevano una Space Caravel ora.
Così, prima di salutarli, Belindo istruì per bene ognuno di loro sul procedimento di costruzione del mezzo.

Ed ora se ne stava solo, nel parco, con la soddisfazione ben stampata in viso.

-    Ma non avevi detto che era una Suzuki?
Udì. Si voltò di scatto e riconobbe il primo dei bambini curiosi.
-    E tu ci hai creduto? Da quando in qua le Suzuki volano?
Il bambino si arrese. Si avvicinò a Belindo e con la punta delle dita sfiorò il manubrio del “mezzo”.

-    Ci sarai anche tu dopo pranzo?
Domandò timido.

-    Sì, ci sarò.
-   Allora io vado, devo costruire la mia...
-    Space Caravel ! Si chiama così.
-    Sì... Ciao, io vado.
E iniziò a correre .

-   Ehiii, tu!
Il bambino si fermò.

-   Vieni qui, presto!
Tornò sui suoi passi, di nuovo vicino al dottore.

-   Tieni, ti regalo questa.
Il bambino non credeva ai suoi occhi. Prese lo strano oggetto tra le mani tremanti e lo guardò come si guarda la cosa più desiderata al mondo.

-   Grazie signore...
Disse con un filo di voce.
-   Devi mettere altro carburante... vedi? Il motore s’è quasi spento.
Suggerì  Belindo indicandogli il barattolo che aveva cessato di fumare. Poi gli offrì anche la busta con le altre cose.
            ... 
Dopo il pranzo, Belindo invitò Simposia a fare due passi e la guidò fino al parco giochi. In una mano teneva una specie di lunga valigia di cuoio nero. Sembrava la custodia di un fucile esageratamente lungo.
Giunti sulla collinetta antistante il parco, Belindo indicò.

-    Guardi!...
La vecchietta diresse lo sguardo a valle e, con grande sorpresa, assistette all’incommensurabile spettacolo che gli si presentava davanti.
Decine di pennacchi di fumo si incrociavano qua e là nel parco. Genitori e bambini “cavalcavano” le Space Caravels ed erano felici .

-    Ma come ha fatto, signore?
Domandò la donna al limite della commozione.

-    Il suo caffè, ricorda? Ne ho provato il gusto senza neppure berlo, Simposia cara... E poi, le sue parole, proprio un anno fa: “... non è importante dare subito delle risposte quanto rispondere a delle domande: questa è la regola della fantasia dei bambini e... anche dei grandi, che poi, in fondo in fondo, lo sono ancora...”
La vecchia signora era estasiata.
Belindo aprì la valigia di cuoio e ne estrasse il contenuto.

-    Questo è un regalo per lei. La separai dal suo bagaglio e l’ho conservata con        cura...
-    Mafalda!!! La mia vecchia cara Mafalda! Dio mio che emozione! Ma cosa le ha fatto? E’ tutta pulita. E’ come nuova. Grazie signore, grazie infinite. Lei mi ha fatto vivere una emozione come non ne sentivo più da troppo tempo.
-   Prego, Simposia, ma anch’io vorrei vivere la mia emozione adesso... E questo dipende solo da lei... Che dice?... Se la sente di riprovare così?
La vecchia donna guardò ancora per un attimo lo spettacolo gioioso che le offriva la valle, quindi, tornò ad incrociare gli occhi buoni del dottor Belindo, in attesa di una risposta. Si avvicinò e, sollevandosi sulle punte dei piedi, lo baciò sulla fronte.

-   Grazie...
Disse. E si allontanò con Mafalda, la sua vecchia scopa volante tra le mani.

Era il sei gennaio del 2002.

L’anno seguente, il sei di gennaio, in ogni casa col comignolo, i bambini trovarono una calza di lana piena di dolci, caramelle e semplici balocchi. Semplici ma stimolanti, tanto che i papà e le mamme di Shrumosh trascorsero buona parte della giornata a rispondere alle migliaia di domande curiose dei figli .
Migliaia di domande, migliaia di risposte... semplici, come vuole la Befana. 

Nota:
Il rudimentale “mezzo” costruito dal dottor Belindo Wear (la Space Caravel) s’ispira ad un vecchio oggetto che, in passato, ha alimentato i viaggi fantastici di centinaia di ragazzi della mia terra: i cacafume.
È stato il gioco povero d’altri tempi nel mio paese d’origine, Collelongo e, sicuramente, in molti altri posti. L’ho ritrovato menzionato su una bella pubblicazione dedicata alle tradizioni contadine.
Mi è piaciuto pensare a mio padre, ai tempi della sua infanzia, in viaggio sulla propria Space Caravel. W la Befana!

2 commenti:

  1. Questo racconto è semplicemente magnifico, senza nulla togliere agli altri. Esso mi riporta agli anni spensierati della nostra fanciulezza quando, appunto, ci bastava avere nelle mani il famoso "cacafume" e buone gambe per accompagnarlo di corsa. Mentre leggevo già a quasi metà avevo intuito che stavi profilando la figura del fantastico oggetto. Era la nostra fiaccola olimpionica. Ora i bambini attuali usano le nuove tecnologie ove tutto è dato meno che la fantasia. La mia infanzia ancorchè povera e semplice non la cambierei con nessun'altra al mondo; tutto sommato eravamo felici! Ora che ho letto vado ad eseguire contento un compito domestico "comandato" dalla mia "comandante"! Al prossimo.

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  2. Ciao Egale...sai mi piacerebbe sapere le storie incredibili che ogni lettore ha immaginato, relative alla vecchia Simposia, concludendo il racconto.
    Ogni tanto mi materializzo ma ho sempre un'occhio vigile, "ectoplasmico"!
    Ho immaginato le Majure piene di "Cacafume"...

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